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venerdì 19 ottobre 2012

oh, that's the way, uh-huh uh-huh

La musica a cappella è uno dei miei tanti pallini e negli statiuniti c'è una tradizione di gruppi universitari vasta e feconda.
Questi qui sotto sono di un posto vicino a boston e, storicamente, sono uno dei gruppi che mi piacciono di più, quando poi un gruppo vocale fa la discomusic io non resito, capita pure che ballo!

Tufts Beelzebubs – That's the Way (I Like It)/Get Down Tonight 
(2000, BOCA 2k)



(buon venerdì)

giovedì 18 ottobre 2012

colpo di scena!

Oggi pomeriggio sto armeggiando con i vari pezzi di un soggetto per diabolik in cui c'è un grosso colpo di scena a un terzo dalla fine (o meglio, io spero di riuscire a farlo cadere a un terzo dalla fine, non è detto, se gira male potrebbe finire prima e mene dispiacerei). I colpi di scena – in relatà – sarebbero due, ma non sono ancora sicuro se riusciremo a farli arrivare al lettore in due momenti diversi, sarebbe bello ma non è così facile.

Mentre son qui che sposto indagini, aggiungo fughe e ipotizzo omicidi. Faccio una pausa e scorazzo svagato un po' per l'internet e qui trovo un bel filmato che coi colpi di scena ha il suo bel accheffare.

Il filmato lo metto qui sotto. Occhio che, se masticate l'inglese e ancora non lo avete visto, può rovinarvi il colpo di scena che sta alla fine de l'impero colpisce ancora.

È un filmato che spiega bene perché, in un certo tipo di storie, sarebbe bene riuscire a tenersi un buon colpo di scena per il finale.


(nella nostra storia forse il colpo di scena non è proprio così forte epperò sarà pure un po' prima del finale, io già mi accontenterei di riuscire a piazzarlo nell'ultimo terzo di storia e neanche è detta)

lunedì 15 ottobre 2012

un post lungo in cui parlo di gioielli

(il post è lungo ma parlo di gioielli poco, usando quasi solo una parola)

Scrivere diabolik e avere un'amica che la sa lunga di oreficeria è un'arma a doppio taglio (che, trattandosi di diabolik... anche un'arma a doppio taglio può venir comoda).

Da un lato, su tutta una serie di domande tecniche, mi risparmio le ore di ricerca su internet. D'altro canto vengo regolarmente sbertucciato ogni qual volta il maledetto criminale ruba un gioiello brutto o, peggio, ogni qual volta mettiamo in scena qualcosa che – agli occhi di un esperto – risulta inesatta o poco probabile.

L'amica non sta a milano e però mi segnala che, a milano, c'è una mostra di gioielli artigianali.

– «nel caso tu ci vada, poi mi racconti com'è?»
– «ora ci penso, eh...»

Quando dico "ora ci penso" in genere intendo "no! no! neanche morto! te lo scordi! no!" poi però ci ho pensato per davvero e ho pensato che: a) poteva essere carino andarci per gentilezza, visto che lei non poteva e le avrebbe fatto piacere farlo, b) poteva essere carino andarci per documentazione, ché magari trovavo qualche gioiello interessante da far rubare a diabolik, c) poteva essere carino andarci per esperimento, così poi magari ci avrei fatto un post per 403.

Ho chiesto a un'amica (un'altra, che invece sta a milano) se le andava di accompagnarmi e si è fatto. Si doveva fare venerdì, ma poi ero malaticcio e si è fatto ieri. La mostra era questa qui, oggi chiudeva.

Entrando nella palazzina liberty, che ospitava una trentina di artigiani-orafi-espositori, la prima cosa che ho pensato erano due cose: "non ce la farò mai a spiegare a quella ciò che sto vedendo, mi mancano terminologia e competenze" e anche "quanto sono brutti questi gioielli".
Alla fine del giro la pensavo uguale, anzi di più.

Oltre al mostra c'era anche un concorso a tema (lo fanno ogni anno) me lo aveva detto l'amica (la prima amica, quella che la sa lunga di oreficeria).

– «c'è anche un concorso a tema»
– «e il tema di quest'anno qual è? la crisi? ahahah!»
(che io, alle volte, sono spiritosissimo, e quindi ci sono rimasto di sale alla risposta)
– «be', sì, quasi... il tema è “a milano con grinta verso il futuro”»
– «caspita!»

Ora vi metto qui il gioiello che ha vinto l'anno scorso, che il tema era diverso, ma lo stile, il genere, è un po' quello lì.


Non so a voi, ma a me viene in mente la parola "kitsch".
Quanti gioielli avrò visto alla palazzina liberty ieri? 300? 400? ecco, me ne saranno piaciuti neanche dieci.
Epperò non erano tutti uguali, le personalità dei vari artigiani si distinguevano con chiarezza. Ma per quasi tutto la parola che mi veniva era "kitsch".

Alla fine della mostra né io e né la mia amica, l'altra amica, quella milanese (ahahah, quella milanese! questa la capisce solo lei, scusate) sapevamo per quale gioiello votare (anche se un impressionante bracciale in oro massello rappresentate il duomo di milano a scala 1:72 ci aveva tentato entrambi). Poi per fortuna l'ultimissimo gioielliere non era male e la sua opera in concorso (che per fortuna non c'entrava col tema, ma ci aveva una fantasiosa spiega per farcela entrare elegantemente a forza) era votabilissima, così abbiamo votato quella. Salvati in extremis (che non votare pareva brutto).
Però di gioielli da far rubare a diabolik non ne ho trovati, piuttosto meglio i gioiellazzi che gli facciamo rubare di solito (anche se la mia amica, quella non milanese, poi magari mi scherza e mi dice che sono grossolani).

Ecco, la mia amica non milanese, quella che ne sa di oreficeria, con lei poi è stato un po' un guaio. Perché l'ho detto che, al momento, l'unica parola che mi veniva da dire era "kitsch" e anche dopo non è che me ne siano venute molte altre, così alla sera, quando al telefono le ho raccontato cosa avevo visto e perché non mi erano piaciuti i gioielli (magari mi avevano divertito, ma non credo che i gioielli fossero contenti di avermi divertito) be' è stato un po' un guaio.

Non so se vi è mai capitato di provare a spiegare, a uno che la sa, una cosa di cui voi non sapete: è un tormento. È un tormento per te ma lo è anche, e soprattutto, per l'altro, per quello che la sa e non può farti le domande da fare, perché tanto tu non le capisci. A me capita a volte col computer, mi chiama l'amico che non capisce di computer e ha un problema e, a volte, non capisce neanche il problema e prova a spiegarmelo e io delle volte mollo tutto e vado a casa sua perché tanto è impossibile capirsi.

Ieri sera mi è successo il contrario, la povera amica voleva sapere e io niente, ero tanto volenteroso quanto inutile.

– «ma com'erano 'sti gioielli?»
– «kitsch»
– «kitsch come?»
– «ah, ognuno a modo suo, ma tutti comunque kitsch»
– «ho capito kitsch, ma come erano fatti, che aspetto avevano?»
– «kitsch»

Ho anche provato a spiegarle usando strumenti culturali a me più prossimi, tipo la musica, ma mica ha funzionato.

– «l'impressione è come se padroneggiassero benissimo la tecnica... ma si facessero guidare soprattutto da quella nella composizione... come certi chitarristi»
– «eh?»
– «ma sì, ci sono un sacco di chitarristi rock (jazz rock poi non parliamone) che fanno pezzi pieni di note, barocchi, quasi inascoltabili, che piacciono un frego agli altri chitarristi o aspiranti tali, ma che sono brutti da ascoltare se non t'interessa la tecnica, ecco quei gioielli oggi erano un po' così, più assoli che canzoni, mi sono spiegato?»
– «no, mi spiace, lo sai che a me... la musica...»
– «lo so... ma è come se invece di fare una bella canzone, semplice, quelli facessero complicati assoli, tutti pieni di note, insomma kitsch, hai capito?»
– «ti prego, lascia perdere...»

Insomma è stato come cercare di spiegare per telefono a un norvegese una mostra fotografica sui fiordi (e senza sapere il norvegese).


(però questa cosa di fare cose che di mio non farei e poi parlarne sul blog potrebbe essere una moda che prende piede)

(certo, se avessi per davvero un blog)





(kitsch)

(nulla, mi sembra di averlo scritto poche volte kitsch)

little nemo in doodle-land

Doodle fresco fresco di pubblicazione nell'homepage di google.

Se sapete cos'è little nemo non c'è bisogno di aggiungere altro. Se non sapete cos'è non è il momento di spiegarvelo (ma è una delle cose più belle che siano mai state pubblicate).
Magari un giorno se ne riparla.


venerdì 12 ottobre 2012

di cosa...


Di cosa scriverei se avessi un blog?

Innanzitutto di sogni, di come modificarli mentre li si sogna, di come deciderli prima, parlando di un libro per bambini, di jodorowsky, forse di quel guitto di castaneda, di me, di una società giapponese che – tra le altre cose – ha commercializzato, anni fa, un traduttore simultaneo per capire i cani.

Poi parlerei dei beatles (poco) e vi farei sentire un sacco di cover di loro canzoni (che una settimana fa erano cinquant'anni dal loro primo quarantacinquegiri, mica è solo il 50° di diabolik, l'uomo ragno e dello 007 del cinema!) e vi farei sentire pure altra roba uscita nel 1962.

Scriverei di fumetti da far leggere a chi non legge fumetti. Un bel problema.

Magari scriverei pure un po' della galera in cui, settimanalmente, ancora vado (ho anche chiesto alla mia detenuta di scrivermi una cosa).

E poi delle solite cose che mi trascino – dentro la testa – da mesi (o anni): di geografia, di oggetti discontinuati, di campionamenti delle canzoni catalogati secondo quanto grossi sono i tocchi presi, di attrici porno col cancro, di come superman sconfisse il ku klux klan, di libri da metrò che traboccano di storie che non ho il tempo d'inseguire, di donne scienziate che la sapevano lunga, di opere letterarie o filosofiche condizionate dalle dimensioni dei fogli su cui sono state scritte, di funambolismo, del ritorno de "la paura fa '60" e di qualche altra cosa ancora.

Ma io non ho un blog, ho piuttosto qualche linea di febbre e un monte di lavoro arretrato (per un volta neanche tutto per colpa mia) che metà basta.

Però avere un blog a me piacerebbe.


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(e invece non scrivo nulla e vi faccio sentire un brano anni '80 dei frankie goes to hollywood – quelli di "relax" – la cui ritmica è, in parte, fatta coi rutti... tocca accontentarsi)

Don't Lose Whats Left Of Your Little Mind

domenica 7 ottobre 2012

poker face

Sepp ed io ci siamo conosciuti a Monaco di Baviera e, posso affermarlo senza cadere nell’esagerazione, è stata la persona più singolare che mai abbia incontrato in vita mia (e, vi assicuro, non ne ho incontrate poche).
Lui, a causa dell’alcolismo dei suoi genitori, cresce in un istituto. Esce come migliaia di bambini a sedici anni, traumatizzato e ferito profondamente nell’anima per i trattamenti ricevuti. Comincia, si può dire già da subito, la battaglia per i diritti dei bambini ancora rinchiusi in questi posti disumani. Negli anni, solo col passaparola, crea una rete di comunicazione tra le persone che hanno subìto e sofferto come lui e si crea così un’associazione di ex bambini degli orfanotrofi.
Sepp ne diventa il portavoce e riesce a far interessare anche la televisione al problema. Così passa da un talk-show al altro, parlando senza vergogna di sé, della sua conseguente malattia psichica, senza tralasciare le mostruosità che, in quegli anni, i bambini hanno dovuto sopportare negli istituti tedeschi per l’infanzia abbandonata. Scrive un libro. Pubblica delle poesie. Il trionfo per tutti arriva nel duemila, quando lo Stato riconosce i traumi vissuti di questi bambini e concede degli indennizzi e delle pensioni d’invalidità per tutte le persone che hanno sporto denuncia contro tale trattamento.

Traumi e danni nel caso di Sepp erano una realtà con cui doveva fare i conti spesso e, ogni tanto, dava i “numeri”. Un giorno la polizia lo trovò a passeggiare in mutande e la scampagnata finì nel reparto chiuso dell’ospedale psichiatrico. Ciò che capitò in seguito, forse un poco è anche colpa mia. Gli avevo riempito la testa per anni, della bellezza dell’Italia, delle persone così diverse dai tedeschi che a me sono sempre apparsi duri e insensibili. Era forse la mia nostalgia che si era impossessata di lui perché, dopo una settimana di ricovero forzato, riuscì a eludere la sorveglianza e – non so come – si trovò in volo verso Roma.

Perché Roma? Perché voleva, semplicemente, discutere a tu per tu con il Papa, mi diceva. Sorridendo poi mi ha spiegato che la sorveglianza vaticana per diversi giorni ha avuto un bel da fare con lui per tenerlo lontano e farlo desistere (sempre con le buone) dal suo intento.
Nello stato in cui si trovava mentre raccontava, cioè, non precisamente con i piedi per terra, oltre la mancata visita al Papa, si ricordava poco delle altre marachelle che aveva combinato nei quindici giorni successivi, nel mio Paese amato. Comunque era sicuro di aver dato spettacolo, perché una sera si trovò in una caserma dei Carabinieri: “ma non chiedermi in quale città mi trovavo”, mi diceva.

Tutto, anche se è divertente, deve avere una fine. Forse perché gli era tornata un po’ di lucidità o forse sentiva quella nostalgia di casa propria che provavo io, fatto sta che Sepp decise di tornare in Germania. Ma lui voleva ritornare in aereo e, senza un soldo in tasca, non era facilissimo. L’unica idea che gli venne in mente per risolvere il problema fu di inscenare un teatro (beh’, a pensarci bene forse non era ancora tanto lucido): salì sul tetto di un condominio e si mise a urlare (logicamente in tedesco perché non parlava una parola d'italiano) facendo finta di volersi buttare giù.
Mise in grande agitazione tutto il quartiere, la polizia, i pompieri e, alla fine, quando ebbero trovato un’interprete, mise in grande agitazione anche quella. Le disse che era scappato dalla Psichiatria di Monaco e che sentiva un bisogno incontrollabile di volare, quindi, sarebbe sceso soltanto se lo avessero riportato in aereo, altrimenti doveva usare il tetto per spiccare il volo che tanto desiderava, a costo della propria vita.

L’aereo della Lufthansa atterrò dolcemente a Monaco di Baviera, e Sepp, con un sorriso sulle labbra entrò nell’ambulanza che già lo stava aspettando.
Dopo dieci giorni fu dimesso dal suo psichiatra, non senza avergli prima regalato una schiacciatina d’occhio.

Penso che, dopo tutti i suicidi riusciti o tentati di cui vi ho detto, questo bluff meritasse d’essere raccontato, soprattutto perché escogitato da una persona che, portava dentro se un grande rispetto per la vita, nonostante tutte le angosce che questa le aveva riservato.

Lucrezia


ammappate 7

sabato 6 ottobre 2012

chissà indott'eri...

Io sono nato in toscana e ho imparato a parlare tra prato e firenze. Poi, a neanche sei anni, son venuto a milano. Risultato: parlo con cadenza milanese e accentazione toscana (ma il massimo di toscano che dico è "spengere", "scaleo" e "cencio").

Non mi sento fiorentino, non mi sento davvero toscano e non mi sento compiutamente milanese (anche se io a milano sto bene e a io a milano voglio bene) però, quando sento certi modi di dire, ho come nostalgia di una patria lontana (quella della mia nonna paterna) a cui non sono mai appaertenuto.



Il brano qui sopra è dedicato e alla mia amica barbara (fiorentina, molto più di me, trapiantata a milano pur'ella) e alla mia amica tania (che adora "I will survive" il cui ritornello qui diventa "e ce la fo").

Felicitas

Il primo pensiero di Felicitas al risveglio in ospedale fu: “maledizione, sono ancora viva!”

Il secondo: “ho bisogno di una sigaretta”.

Vorrei incominciare dalle cause che avevano portato questa ragazza, ventenne, a scegliere la morte al posto della vita. Lei, campionessa giovanile di Judo, applaudita da tutta la Germania aveva dovuto lasciare lo sport professionista a causa di un incidente: prima botta. La separazione alquanto movimentata dei genitori le aveva dato il resto. Normalmente, in un divorzio, la mamma e il papà ne inventano di tutte pur di avere l’affidamento del figlio. La propria prole è l'argomento più indicato per un ricatto eterno. Non così per Felicitas. I suoi genitori, ognuno già con il proprio amante per mano, litigarono solamente per la casa, i piatti, le tazzine e le posate, ma nessuno dei due aveva tempo d’occuparsi della figlia ancora minorenne. Che pena per la ragazza accorgersi che i suoi genitori, non soltanto volevano divorziare tra loro ma, sembrava, pure da lei.

Per anni fu costretta a fare la sponda tra una casa e l’altra, con lo zaino sempre pronto per quando era giunta l’ora di sloggiare nuovamente. Logicamente i due ex coniugi non si accorsero che la loro figlia si stava ammalando di “voglia di non esistere più”.

Torniamo in ospedale. Felicitas, ancora intontita dalle pastiglie prese per lasciare questo mondo, suona il campanello per chiedere se è possibile fumare una sigaretta. L’infermiera, scocciata per essere stata chiamata per una richiesta poco urgente, le risponde con un secco no! La ragazza le fa notare che nel bagno c'è un portacenere già usato e che ha veramente tanto bisogno di quella sigaretta, per calmarsi un poco. Evidentemente questa persona, che dovrebbe accudire e infondere coraggio ai malati, doveva aver saltato la lezione in cui spiegavano come ci si comporta con una paziente aspirante suicida ecosì Felicitas si sente rispondere: “altro che sigaretta ti darei, tu hai soltanto bisogno di una ripassata da tuo padre!”

A questa risposta, non proprio sensibile e dilicata, succede l’irreparabile! Felicitas scatta dal letto, dà uno spintone all’infermiera che cade mettendosi a strillare come un’aquila.

Nei giornali sarà poi scritto che: «la
coraggiosa infermiera è riuscita a divincolarsi e, con l’aiuto del personale, la ragazza è poi stata immobilizzata e trasferita immediatamente in un ospedale psichiatrico. L’infermiera ha sporto denuncia per aggressione a causa delle ferite riportate, che per quaranta giorni le hanno impettito di lavorare, perché costretta a portare un collare per evitare eventuali complicazioni alla spina dorsale».

Non so perché, ma a me sentendolo è venuto subito in mente il famoso “colpo di frusta” che, dopo un tamponamento, tante persone cercano di usare per incassare risarcimenti dalle assicurazioni. Un simpatico collare per creare il giusto effetto per suscitare compassione.

Felicitas, dopo l’avvenuta denuncia, viene trasferita in un OPG (ospedale psichiatrico giudiziario) in attesa del processo. Il giudice, senza tenere conto del fatto che mai nella sua vita avesse reagito aggressivamente in qualsiasi situazione, la condanna anche a causa della sua passata attività sportiva: lo Judo, considerato dal giudice uno sport violento e aggressivo, fa automaticamente della ragazza un pericolo per la comunità.



Da quella sentenza sono passati più di dieci anni e, nonostante lei non si sia mai dimostrata litigiosa o irascibile durante la sua detenzione, ancora non se ne vede la fine.
Ogni sei mesi viene un giudice in visita e se ne va dicendo: “non mi sento di garantire per l’incolumità delle persone, che possono venire a contatto con lei, e quindi non sono in grado di prevedere la reazione della paziente se dovesse trovarsi in situazioni analoghe, come descritto nell’accusa”. Con questa frase nelle orecchie Felicitas ogni volta torna rassegnata nella sua sezione, senza aspettare col cuore in gola la prossima vista dell’onorevole giudice, perché ormai è convinta che il suo giudizio difficilmente muterà.

Un mio consiglio spassionato: fate l’amore e non un suicidio, che in quel caso la sigaretta del “dopo” non ve la nega nessuno.

Lucrezia



ammappate 6

venerdì 5 ottobre 2012

e affanculo anche i captcha

In due giorni già un paio di persone mi hanno scritto mail dicendo che non sono riuscite a lasciare commenti a causa dei captcha di blogspot divenuti ormai quasi indecifrabili.

L'unioca volta che li ho disattivati, neanche mezzora dopo un bel commento di spam faceva bella mostra di sé nell'elenco dei commenti recenti. Però quando è troppo è troppo. A partire da adesso disattivo i captcha almeno fino a domenica sera, se avevate qualcosa da dire approfittatene.


Se invece non avete nulla da dire, stiamo a guardare assieme quanta spam arriva in un finesettimana.

spara che ti passa

La cosa migliore è spararsi!
Questa è la frase classica di un suicida che voglia comportarsi da vero uomo: un bel colpo in testa e festa finita!

L’ho sentita talmente tante volte e altrettante mi sono chiesta: ma dove credono di recuperarla, al momento opportuno, questa pistola?
Non ci troviamo in America, dove basta andare in un negozio sotto casa o, se proprio non puoi passare per vie legali, con una certa probabilità e un poco di fortuna, dietro qualche angolo, per qualche centinaio di dollari un tipaccio te la vende. In Austria (e non solo in Austria) per entrarne in possesso legalmente si deve seguire un procedimento lungo e pieno di complicazioni burocratiche (che mal si adatta a chi ha fretta di farla finita) oppure sarebbero necessarie come minimo delle conoscenze galeotte per procurarsene una, ma quanti di noi hanno degli “amici” così?

Conosco un tizio 
tuttavia che, allepoca, riuscì a procurarsene una.

Ma, una volta portata a casa, le cose non filano mica lisce come lui aveva immaginato. Sua moglie infatti nutre dei fondati sospetti sulle sue intenzioni e allora lui, furbo, pensa bene di smontare l’aggeggio e nascondere i pezzi un po’ qua un po’ là, aspettando che si calmino le acque e che la moglie si tranquillizzi. Una sera, finalmente da solo, capisce che è l'occasione giusta per mettere in atto il suo intento ma, purtroppo, a quel punto non è più in grado di rimontare il tutto e così la moglie, rincasando, lo scopre nel garage ad armeggiare con i pezzi della rivoltella che proprio non vogliono saperne di tornare tutti quanti al loro posto. Incavolata nera, lei più che di lacrime lo ricopre d’insulti, gli toglie i pezzi di mano e va a sotterrarli nei campi, convinta di aver così risolto il problema.

E invece lui, da uomo vero, riuscirà comunque nel suo intento (pace all’anima sua) non con la pistola ma facendo, alla fine, ricorso a un banale veleno per topi.

Morale della favola: un’agonia durata parecchie ore con tutti i parenti più stretti intorno al suo capezzale, che tra le lacrime imprecavano sussurrando a voce sostenuta: “stupido!”, “come hai fatto?” “ma guarda come sei ridotto, ti rendi conto quanti fastidi avrà ora tua moglie, guardala in che condizioni è, non ti vergogni di lasciarla così, la casa a metà, i debiti da pagare, vedi di guarire e di tirarti fuori dai guai”. E la moglie: “dovevo rimontarla io e spararti, così mi sarei risparmiata questa vergogna”.
Una roba così non si ha da fare e basta.

Non posso affermare con certezza se la sua fine arrivò a causa della sostanza tossica per topi o piuttosto da tutto quel veleno rigurgitato dei parenti più cari.

Voglio aggiungere che questo evento ebbe luogo quarant’anni fa e nella campagna austriaca le reazioni erano influenzate dal pensiero di quell’epoca contro chi sceglieva di morire di propria mano. Non siamo ancora nel periodo della psicoanalisi per contadini né, tantomeno, le persone si chiedevano cosa potesse averlo spinto a quel gesto.

Io invece so perché l’ha fatto e, alla base, ci sta una storia terribile, che però non vi racconterò mai!

Attenzione: si può morire anche di curiosità, comunque tranquilli, nel caso, non sarà mai confuso con un suicidio.

Lucrezia


ammappate 5

giovedì 4 ottobre 2012

scoprire cose di sé...

Sono anni che seguo Friday Prejudice e in questi anni mi sono sempre chiesto se anche io, come a volte succede, avrei lasciato un commento con su scritto "primo" ebbasta nel fortuito caso mi fosse capitato di leggere un suo post così fresco di pubblicazione da non avere neanche un commento.

Mi sono sempre risposto: "non lo so".

Mi è capitato poco fa.
Lo so che è da imbecilli dirlo, ma vedere quel form vuoto in attesa di un primo commento mi ha un po' emozionato.

Comunque la risposta è: "no", il commento con su "primo" non l'ho lasciato.

(però poi ho fatto questo post e non so che cos'è peggio :)

no water resistente

L’amore è un sentimento favoloso, che potrebbe anche durare in eterno, se solo tante persone non fossero tormentate dal tarlo della gelosia. A quel punto, di regola, s’insinua la sfiducia e la successiva rottura del rapporto di copia è soltanto questione di tempo. Nella fatale storia d’amore di oggi prima del rapporto si romperà qualcos’altro, ma andiamo per ordine.

Siamo in Austria. Gerhard, il nostro protagonista, aveva trentasei anni, era alcolizzato e innamorato di una donna la quale condivideva volentieri le varie bibite con lui. Lei mi raccontava che la mattina al posto del caffè “stappava” già il primo cartone di vino e così arrivati a sera, quando la festa continuava con gli amici nei bar, il livello era già a buon punto. Si sa, per esperienza, che tra alcolizzati nascono facilmente delle liti perché diciamo che sono alquanto suscettibili e irritabili, anche se poi, il giorno successivo, tornano a essere grandi amici e, dandosi reciprocamente pacche sulle spalle, brindano alla loro “salute”. Il tutto poi si complica parecchio se in rapporti, già così labili, entrano una donna e la gelosia, la quale posa, al posto del braccio dell’amico, la sua mano pesante sulla spalla. Gerhard, l’ubriacone trentaseienne, è affondato proprio per un sentimento così primitivo che di solito non porta a niente di buono, ma basta preamboli.

La serata al bar è, come sempre, allegra e “bagnata”, tutti si divertono tranne Gerhard che a un certo punto s’immagina che la sua bella faccia troppe moine e sorrisini ai suoi amici. Presto gli passa la voglia di festeggiare e invita la sua donna alla ritirata. Lei, ignara dell’attacco di gelosia che ha colpito il suo compagno, lo manda, per così dire, a casa. Lui offeso se ne torna all’ovile disperato e con un forte senso di abbandono. Da solo seduto in cucina, mentre passano le ore, gli viene un’idea grandiosa: chiama il bar, si fa passare la sua bella e le dice: “se non vieni immediatamente a casa, m’impicco!”
È convinto che la minaccia faccia subito effetto e, per dimostrare che non scherza, che lui quando dice una cosa la fa, come un vero uomo, va in bagno, sistema una corda sui tubi dell’acqua sopra il gabinetto e infila la testa aspettando il suo ritorno, convinto che questa messa in scena la legherà per sempre a lui. Dopo una mezz’ora circa, l’amata ancora non si fa viva e allora Gerhard scende dal water va al telefono e richiama il bar, ribadendo la sua disperata decisione. Si concede un altro paio di bicchierini e, da bravo, si riposiziona sopra il gabinetto, la corda stretta attorno al collo.
E poi, senza scricchiolii di preavviso, succede la disgrazia.

Forse i tanti bicchierini, l’impazienza e la posizione non troppo comoda lo fanno muovere un po’ troppo, fatto sta che a un certo punto il coperchio cede sotto il suo peso e – con i piedi incastrati nel water – la vita di Gerhard se ne va letteralmente giù per il gabinetto.

Fu uno dei funerali più allegri a mia memoria, perché perfino il prete si fece sfuggire un commento poco “sacro” sulla morte accidentale del “povero cane” (come dicono in Austria). Qualcuno disse addirittura che si sarebbe potuto risparmiare i soldi del funerale, bastava tirare l’acqua.

Tenete a mente: a meno che non facciate sul serio, mai fidarsi di un water come appoggio!

Lucrezia

ammappate 4

mercoledì 3 ottobre 2012

lamette

Continuiamo in nostro discorso sugli suicidi o aspiranti tali, cominciato nei post precedenti (e il titolo dovrebbe mettervi sull'avviso di cosa parleremo oggi).

È vero che tutti, di primo istinto, vorrebbero spararsi ma rimaniamo con i piedi per terra. Normalmente le nostre case sono fornite di pastiglie e di lamette. Predisposte le ultime per radersi, per tagliarsi i peli sotto le ascelle o sulle gambe, quindi, dopo il primo fallimento con le medicine, di logica, si passa a loro. Questo vuol dire rimanere realistici, altro che pistola o revolver automatico!

Le donne sono prime in classifica nell’usanza di questa tecnica, mentre gli uomini hanno dei leggeri problemi e mancano spesso d’abilità e sensibilità, non capendo bene dove, come e in che profondità l’incisione deve essere fatta. Mi si perdoni il termine, ma gli uomini sono un po’ grossolani. Posso affermarlo senza scrupolo perché ne ho visti parecchi. Qualche chirurgo, mentre ricuciva quei tagli fatti un poco a casaccio, si è fatto delle sane risate insieme alla sua infermiera perché capivano che il paziente aveva abilmente evitato ogni contatto tra lama e vena. Detto in poche parole, molti degli uomini che si tagliano lo fanno spesso per esibizionismo e basta. Magari sono anche tagli profondi, poi piagnucolano mentre sono ricuciti, ma quando tornano tra gli amici, mostrano con orgoglio le ferite e non tralasciano di porre l’accento su quanto c’è voluto di coraggio e di determinazione per arrivare a tanto.

Ora che ho potuto sparlare del sesso forte voglio arrivare alla mia esperienza con le lamette e, devo confessare, la figuraccia l’ho fatta pure io.
Posso incolpare la televisione che non racconta mai la verità o il fatto che, in generale, sono un po’ credulona o meglio conservo, da sempre, una genuina ingenuità. Regge, mi auguro, come premessa e come scusante.
Mi trovavo, sì, esattamente in un ospedale psichiatrico per fare i conti col mio doloroso passato, quando una sera, senza melodrammi precedenti, avevo deciso di tagliarmi le vene. Credetemi, per chi non l’ha mai fatto, togliere la lametta da un rasoio Bic “usa e getta” è un‘impresa sanguinosa già di per sé (e per rispetto a quell’animo sensibile che è 403 [che deve pure battere a macchina tutto questo, brrr] a riguardo non vi spiego altro [grazie!]). Alla fine dell’operazione ho contato fino a tre e via! Sette tagli sul polso sinistro e cinque sul destro. Ho sentito un bruciore bestiale e la fifa di essermi tagliata un tendine, che preoccupazione, nè?
Da brava poi ho avvolto intorno degli asciugamani per non farmi scoprire e veloce sotto le coperte a far finta di dormire, convinta di svegliarmi esangue il giorno dopo, ossia di non svegliarmi più.
Mi sono addormentata, involontariamente il braccio è uscito dalle coperte e l’urlo di un’infermiera mi ha risvegliato. La faccio breve: trasporto dal chirurgo, una quindicina di punti e lui con un sorriso divertito, mi spiegò che i tagli vanno fatti per lungo (dalla mano verso il gomito o viceversa) non per largo e magari senza poi tamponare le ferite con degli asciugamani, rallentando così l'emorragia.
Uno che vuole farsi fuori è sempre grato di un suggerimento fatto da una persona competente!

Non sono una che arrossisce facilmente, ma comunque mi sono vergognata anche senza assumere la colorazione che di norma si addice a questo stato, maledicendo tutti i film dai quali sono stata ingannata sulla direzione da prendere col rasoio.

Lucrezia
[403]

ammappate 3

martedì 2 ottobre 2012

no comment

Io so che voi, qui, siete pochi e commentate mal volentieri. Con questa serie di post in corso, su un argomento così comunemente ammutolente quanto il suicidio, poi, mi aspetto ancor meno del solito. Però, se vi venisse voglia di commentare questi post di lucrezia (e a lei farebbe di sicuro piacere) c'è una cosa da ricordare.


A causa del fatto che vive in un'isoletta sperduta nei fiordi del mare del nord (o in qualche altro posto di altrettanto scomodo da raggiungere, mica so bene bene) ci sono dei tempi tecnici per le sue repliche. Inizialmente la spiegavo così:
Lucrezia potrà anche rispondere ai vostri eventuali commenti, ma comunque lo farà coi tempi decisi dal battello postale. Io devo stampare, spedire, la busta deve arrivare lassù, aspettare nell’ufficio delle poste il giorno in cui il battello fa la consegna, lei deve leggere, rispondere, aspettare il giorno in cui il battello ripassa, consegnare la busta e infine io devo riceverla e ribattere nel blog i suoi commenti. Insomma, bisognerà aver pazienza.

il primo suicidio non si scorda mai

Il primo tentativo di scendere da questa terra, al novanta per cento, finisce in un fiasco. Sono a conoscenza di questo fatto per il confronto con amici che hanno vissuto la mia stessa disavventura.

La prima volta si ricorre volentieri alle pastiglie. In fondo, per molti, la paura più grande è la sofferenza fisica quindi, ingerendo delle pilloline, ci s’immagina di addormentarsi serenamente e non svegliarsi più. Che fregatura invece che ti aspetta il giorno dopo!

Eh sì, perché per prima cosa non conosci l’effetto delle medicine e non sai quanta roba è necessaria per farti prendere dal sonno eterno. Inoltre, difficilmente per la prima volta si hanno a portata di mano dei farmaci sicuramente adatti, quindi si racimola tutto quel che capita dalla farmacia di casa.

E così, ai dilettanti solitamente capita che:

A) Butti giù tutto il miscuglio e dopo mezz’ora circa finisci in bagno e non solo ti alleggerisci delle pastiglie prese, ma ti si svuota l’intestino intero, come dopo una bella lavanda gastrica. A questo punto non ti resta che andartene a letto, sperando di non sporcare le lenzuola mentre dormi e il giorno seguente ti tocca rimediare alla disidratazione con una bella bevuta d’acqua pura e molto salutare per il tuo organismo che, non più di dodici ore prima, avevi intenzione di distruggere.

B) Non vuoi prenderne troppe, non per la paura di morire, ma che il risultato non sia quello di vomitarle tutte. Che cosa succede a questo punto? Ne butti giù cinque, sei, e aspetti una quindicina di minuti per vedere l’effetto che fa. Ti senti, almeno così ti sembra, già più tranquillo, anche un poco stanco e lo stomaco regge, quindi rifletti un attimo e decidi che altrettante sono proporzionate al bisogno. Chiudi gli occhi e dici addio a questo mondo di cioccolata che ti ha evitato il diabete, ma non ti ha risparmiato la stitichezza.
Il giorno successivo però ti svegli al canto del gallo e non di qualche arpa angelica e, bisogna dichiarare il vero, in fondo in fondo sei anche contento di aver come unico sconveniente soltanto l’alito cattivo.

In entrambi i casi non parli ad anima viva della tua esperienza finché, dopo il primo o secondo ricovero in psichiatria, non incontri un altro sciocco come te. Ci ridete sopra e nello stesso tempo vi scambiate dritte per evitare successivi fallimenti, se nuovamente vi dovesse prendere la smania di volerci riprovare.

Posso affermare che tentare di farsi fuori è un po' come mangiare noccioline: è difficile smetterla. Perché quasi mai sei a conoscenza del tuo vero problema e ti senti tutto il mondo contro. Però farsi fuori per davvero è molto più difficile che mangiare una nocciolina. Il più delle volte sbagli il modo, il tempo o il posto, così ti trovano prima di poter tornare a nuotare nel brodo primordiale. E questo (anche se nell’immediato può contrariarci parecchio) io penso sia davvero una grande fortuna.

Lucrezia

ammappate 2

lunedì 1 ottobre 2012

sfigati (semplici e doppi)

Quando si parla di morte si cattura l’attenzione del pubblico.

Non c’è argomento più caro alle persone, delle disgrazie che accadono agli altri. I telefilm polizieschi, le serie CSI o i RIS nostrani, fanno dimenticare di possedere un telecomando. E non voglio neppure citare le varie pseudo inchieste su fatti di cronaca che sono sviscerati da veri professionisti del mestiere o da persone diventati, tutto di un colpo, esperti criminologi e quant’altro.

Voglio anch’io raccontare qualche bella storia di fatti realmente accaduti, ma di un genere per me è più interessane dell’omicidio: il suicidio.

Niente paura, non parlerò della sofferenza atroce che patisce il candidato e che l'ha portato a voler rinnegare la vita. No, preferisco parlarvi di "dati tecnici" perché non è sufficiente la fantasia più fervida per immaginare le disgrazie, gli intoppi, i malintesi, le reazioni, i commenti (l’elenco è quasi interminabile) che deve affrontare e sopportare chi ci riesce o fallisce nel tentativo di togliersi di torno.
È ovvio, di persona certi discorsi li potrai sentire soltanto se rimani in vita, perché ci immaginiamo che dopo morti non sentiremo più niente, giusto? Questo almeno è ciò che un suicida si augura, che lui non sogna nemmeno il passaggio nel paradiso, all’inferno o di svolazzare come fantasma in giro su questa Terra. In genere, non si ha altra pretesa se non quella di sparire, e basta. Però i commenti di certe persone (non sempre gentili e comprensivi, c'è da dirlo) su chi c’è l’ha fatta a passare a miglior vita, se così la vogliamo chiamare, io li ho sentiti!

Ora, è molto difficile conoscere o immaginare (azzeccandoli) i meccanismi contorti che si mettono in moto nella mente umana per arrivare a una tale decisione. Quindi lavorerò poco di fantasia e mi limiterò a raccontare dei tentativi miei e di amici, parenti o conoscenti, che ci hanno provato e, come me, hanno fatto cilecca o di chi invece l’ha avuta vinta (e in tal caso naturalmente non parlo di me, sche vi scrivo da lontano, ma non da così lontano come l'aldilà). Comunque saranno sempre notizie di prima mano. Garantisco l’autenticità delle storie e non sarà proibito ridere, perché il comico, l’assurdo, non è quasi mai il poveraccio che si è stufato della vita, ma quelli che gli stanno intorno: amici, familiari, infermieri e medici. E non scordiamoci degli psichiatri che, in caso di fallimento, hanno una serie di domande in petto che già basterebbero a farti schiattare senza bisogno di corda, pastiglie o ciò che non aveva funzionato, nel tuo caso, per farti giungere all'altro mondo.

Da domani vi racconterò i fatti di queste persone che vivevano o – per fortuna – godono tuttora di buona salute in Germania e in Austria. E partirò da una mia storia, capitatami da giovanissima.

A domani, Lucrezia

ammappate 1

ammàzzate!

Non so se vi ricordate lucrezia. Lucrezia è una tipa che non ho mai visto di persona, che mi manda post-ospiti per 403 sottoforma di lettere cartacee (che io poi ribatto qui dentro) e che manca da qualche mese su questi schermi, ma non per colpa sua (bensì per colpa mia, che ci ho messo una vita a dattilografare gli ultimi pezzi che mi ha mandato).

Comunque, alla fine ce l'ho fatta e così, dopo le storie del suo amico wolfgang (cuoco ex becchino) e di cepletischetis (la strana isoletta dove vive in ritiro sperituale), da oggi lucrezia torna con una settimana di post tutta dedicata a suicidi o ad aspiranti tali. Il primo lo pubblico tra poco.

Un po' si riderà, un po' ci si resterà male...
(come nella vita, del resto)