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lunedì 30 novembre 2009

quella volta che dei conigli sconfissero napoleone bonaparte

«[...] Per festeggiare [la pace di Tilsit, nel 1807], [Napoleone] suggerì che la corte imperiale si godesse un pomeriggio di caccia al coniglio.
A organizzarla fu in capo di Stato maggiore, il fido Alexandre Berthier, così ansioso di fare una buona impressione a Napoleone che comprò migliaia di conigli per essere sicuro che la corte imperiale avesse selvaggina in abbondanza.
Venne il giorno della festa, iniziò la partita e i guardacaccia liberarono i conigli. Ma fu un disastro. Berthier aveva acquistato dei conigli domestici e non selvatici, i quali pensavano erroneamente che gli avrebbero dato da mangiare, non la caccia.
Invece di scappare per salvarsi, avvistarono un ometto con un grosso cappello e lo scambiarono per il guardiano che portava loro del cibo. Affamate, le bestiole si precipitarono su Napoleone più veloci che potevano: ai 56 chilometri orari.
I partecipanti alla battuta di caccia – ormai nel marasma più completo – non poterono far nulla per fermarli. A Napoleone non restò altra possibilità che correre via, respingendo quegli animali affamatissimi a mani nude. I conigli però non mollarono e spinsero l'imperatore fino alla sua carrozza, mentre i suoi tirapiedi li colpivano invano coi frustini. [...]»




Sto finendo di leggere questo ottimo libro da metropolitana (dei libri da metropolitana riparlermo, magari): Il libro dell'ignoranza (di J. Lloyd e J. Mitchinson, trad. Alessandra Montrucchio, Einaudi, 2007) e sto scoprendo un monte di cose interessantissime (magari ci torno sopra, prima o poi). Nessuna divertente quanto la disfatta di Napoleone a opera degli inermi conigli, ma interessanti sì.

L'altro giorno quando ho letto il passo che ho copiato sopra ridevo per conto mio in una carrozza mezza piena della MM1 dalle parti di Porta Venezia.
È stato carino perché appena ho smesso di ridere io, una ragazzina di un tredici anni, occhialuta e grassottella, che se ne stava da sola, non lontano da me, a parlare al cellulare, ha cominciato a sghignazzare sonoramente, e ripeteva "dai, mamma smettila!" e giù a ridere, divertendosi di gusto, e la mamma chissà che le diceva dall'altra parte perché lei le ripeteva di smetterla e poi di nuovo giù a piegarsi dalle risate, e non la smettevano, nessuna delle due. Insomma è come se ci fossimo passati di mano la staffetta del buonumore, io e la ragazzina. Anche se io a vedere lei ridere così ero quasi più di buonumore che a immaginarmi Napoleone inseguito dai conigli. Poi sono sceso a duomo.

giovedì 26 novembre 2009

che cosa mi regalo quest'anno?

Su Friend Feed Viola sta chiedendo idee per libri da proporre ai clienti della sua libreria per natale. Ho buttato giù qualche consiglio su fumetti usciti nell'ultimo anno (o giù di lì) e poi ho pensato che se ci mettevo le figure avevo un post bello e che fatto e così l'ho fatto. Così, se riesco a convincervi, potete trarre ispirazione per farvi un regalo o due.



Per primo Il Gusto del Cloro di Bastien Vivès (Black Velvet, 18 €) un libro lento, azzurro, bellisssimo. Per tutta la storia sembra non succeda nulla poi arrivi in fondo e qualcosa d'importante è successo e non capisci bene cosa.



L'Approdo di Shaun Tan (elliot, 22 €) lui ha uno stile troppo da illustratore per i miei gusti, ma il libro è forte e commovente, una storia d’immigrazione e accoglienza raccontata con un fumetto completamente muto (e che quindi parla la lingua di tutti).



Il Gatto del Rabbino di Joann Sfar, Rizzoli ha raccolto in due volumi (dal formato un po' piccolo, uno e due, sì lo so,  è la stessa scheda ripetuta, e bravi quelli del sito Rizzoli) i primi cinque episodi della serie, i primi quattro erano già stati pubblicati (nel formato giusto) da Kappa Edizioni. Il gatto del rabbino è forse la serie francese più bella in corso di pubblicazione qui da noi, storie di ebrei d’Algeria immerse in un’atmosfera di realismo magico. I due volumi Rizzoli costano 16 € e 17,50 €, quelli Kappa 13,5 €, 13,5 €, 15 € e 16 €. Ah, la postfazione del secondo volume Rizzoli l'ha pure scritta un amico mio che la sa lunga.



La Storia del Topo Cattivo di Bryan Talbot trona finalmente in libreria dopo anni di assenza grazie a Comma 22 (che bello che nel loro sito puoi sfogliare, un po', i loro libri, il Topo è qui). Una storia dura raccontata con delicatezza. Una storia di violenza subita e di pace ritrovata. 16 € ben spesi.



I Sotterranei del Revolù di Marc-Antonine Mathieu (001 Edizioni, 15 €) per gli amanti (e solo per loro) di certa letteratura labirintica: Borges, Calvino e dintorni. Il resoconto di una vita passata a esplorare i fantastici sotterranei di un museo sconfinato. Un libro vertiginoso.



Marzi di Sylain Savoia e Marzena Sowa (Coconino/Fandango, 25 €) piccoli episodi di vita quotidiana nella Polonia della cortina di ferro visti con gli occhi di una bambina, l'ho appena iniziato e non mi pare niente male.



La signorina Else di Manuele Fior (Coconino, 17,50 €) lui è un artista friulano che però vive a Oslo e qui interpreta Arthur Schnitzler, io non l’ho ancora letto ma l'ho comperato e da sfogliare è bello.




Di cose non recenti cosa si può segnalare? Innumerevoli. Ovviamente Maus oppure il mio adorato Le Pillole Blu ma qui spendo due parole solo per i tre volumi de Il Fotografo Guibert/Lefèvre/Lemercier (Lizard, 17,50 €, 17,50 €, 21,80 €) la fotografia si intarsia nel fumetto per raccontare una spedizione di Medici Senza Frontiera durante l’invasione dell’Afganistan da parte dell’URSS. Specie i primi due volumi sono imperdibili.

(Che poi l'evento di questa fine 2009 per chi la sa di fumetti sarebbe Jimmy Corrigan di Chris Ware pubblicato, dopo anni e anni di attese, da Mondadori, io però non l'o ancora cominciato e ho in casa da tempo immemorabile l'edizione originale senza avere il coraggio di prenderla in mano, quindi di Corrigan è meglio che non parlo)

Buon Natale!

mercoledì 25 novembre 2009

i quattro colli

Per colpa di un post di Spari scopro la libreria on line Book Depository che è in UK (quindi al sicuro da qualsiasi bega doganale), fa spesso sconti e – soprattutto – non fa pagare le spese di spedizione (quindi puoi ordinare un singolo libro da tre euro, quelli te lo spediscono e tu spendi solo tre euro). Il potenziale d'impatto sulle mie finanze di questa cosa è notevole, senza il freno psicologico dell'avere un po' di libri da ordinare tutti in una volta, per ammortizzare le spese di spedizione, pavento un proliferare di acquisti.


Settimana scorsa faccio il mio primo ordine: un vecchio libro di Sendak, uno ancor più vecchio di Gorey, l'unico libro di Kit Williams che non ho e un capitolo della lega degli straordinari gentlemen ancora inedito in Italia. Quattro libri, in tutto una ventina euro, un unico ordine, tempi di consegna previsti identici.

L'altro ieri mi arrivano tutti e quattro assieme. In quattro imballi distinti. Ohibò.

La prima cosa che ho pensato (che io tanto giusto non sono) è stata «ecco, Book Depository mi sta mandando un messaggio e mi sta dicendo "guarda che per noi è davvero indifferente se ci ordini un libro alla volta oppure quattro, quindi ordinacene pure uno alla volta, che ci è così indifferente che te lo dimostriamo impacchettandoti i quattro libri che hai ordinato in quattro pacchetti diversi e facendoti quattro diverse – ancorché contemporanee – spedizioni per via aerea"». Insomma è come se Book Depository sapesse che a me pare comunque uno spreco questa cosa di farmi mandare un libro alla volta dalla Gran Bretagna e che, anche se non lo pago io questo spreco, mi dispiace lo stesso. E allora loro, che sanno che se torno a pensare che è meglio se i libri li ordino a gruppetti poi mi vendono meno roba, hanno fatto questo atto un po' violento di spedirmi quattro colli distinti per farmi vedere che loro non scherzano un cazzo, e che me ne facessi pure una ragione. Che a ordinarne quattro insieme o quattro in quattro giorni diversi non cambia nulla né per il mio portafoglio (che paga uguale) né per l'ambiente (che comunque paga uguale). Un messaggio un po' da bulli che mica apprezzo, ma che si capisce bene dove vuole andare a parare.



Lo so che non è per davvero così. E infatti ho pensato che questo è un altro di quei casi in cui vedo la differenza tra il mondo com'è e come vorrei che fosse. Ossia la differenza tra un mondo (questo) dove viene più comodo sprecare risorse (perché forse l'imballaggio e il peso in più da caricare sull'aereo che mi porta i libri costano meno dell'organizzarsi in modo più elastico ma magari no, magari è solo un lavoro fatto male, antieoconomico pure per loro) e un mondo (di fantasia) in cui c'è un pensiero dietro a tutto quello che viene fatto, e in cui anche dietro le cose sbagliate non c'è sciatteria ma un disegno preciso (fosse anche quello, non condivisibile, di ammaestrarmi allo spreco al fine di vendermi più libri). Ma, si sa, questo non è il migliore dei mondi possibile.

(e infatti nel migliore dei mondi possibile i libri da me ordinati sarebbero stati tre di più, così il titolo di questo post sarebbe venuto molto molto meglio)

per gli splinderiani...

Ma capita solo a me che, da giorni e giorni, la casella mail di splinder (la casella mail di splinder?! e chi se l'è mai inculata la casella mail di splinder) segnali due messaggi fantasma in attesa di essere letti?



Non è irritantissimo?

martedì 24 novembre 2009

trova le differenze

È da quasi cinque mesi che frequento questo carcere. L'idea è di dare una mano a due detenuti (un detenuto e una detenuta) nel realizzare un fumetto/fotoromanzo per il giornale della prigione.

Che differenze ci sono tra il far parte di un gruppo di lavoro qualsiasi e il lavorare con due che stanno in galera? A me capita spesso di scrivere in collaborazione con altri e quindi ho una certa esperienza. Di differenze io, finora, ne ho trovate due.




La prima è la più complicata da gestire: lavori con persone che non puoi contattare.
Perché non è che a uno che sta in carcere gli puoi mandare una mail o un sms, né gli puoi telefonare (e non puoi neanche telefonare agli agenti e lasciar detto). Insomma, se hai qualcosa da dirgli gliela devi dire di persona quando vai lì. Punto.
Tutto ciò ha due conseguenze: il lavoro procede più lentamente (molto più lentamente) e gestire gli imprevisti è problematico (abbastanza problematico). Per esempio disdire un incontro con meno di una settimana di anticipo sarebbe un vero casino. Fino a oggi non è mai capitato, incrocio le dita e confido nella mia proverbiale buona salute e in quella (già meno proverbiale) della mia automobile.

La seconda è che con loro non puoi parlare dei dintorni di dove vivono.
L'altro giorno mi è capitata una cosa buffa andando lì, una faccenda che ha a che fare con cartelli di divieto di transito e vie falsamente a fondo cieco, una roba che è divertente solo per chi conosce le strade in questione e quindi non starò qui a raccontarvela. E però non l'ho raccontata neanche a loro. Insomma ti capita questa cosa nella stradina che porta al carcere, parcheggi l'auto ridacchiando, passi i controlli che sei ancora di buon'umore, arrivi in riunione e normalmente diresti ai colleghi "lo sapete cosa mi è successo nella viuzza qui dietro?" ma non lo fai, perché hai come l'impressione che ti risponderebbero "quale viuzza, scusa?".
Non è un grosso problema, lo ammetto, però, per dire, sono mesi che vado in quel posto e ancora non ho capito come arrivarci con la tangenziale (ci arrivo solo via città) e una domanda tipo "ma per venire da voi che strada mi conviene fare?" parrebbe stupido fagliela.

Ecco, per ora mi pare che altre differenze non ce ne siano. Se ne scopro ancora ve le racconto.

Ah, settimana scorsa in galera sono successe due cose: la prima è che i pocket coffee e i mon chéri sono tornati nel catalogo delle spesine, bene così. La seconda è che ho detto ai miei detenuti dell'esistenza di questa serie di post. Adesso li stampo tutti e la prossima volta glieli porto da leggere, non senza una certa trepidazione.

senza passare dal via (9)

giovedì 19 novembre 2009

ospiti dubbi


L’ospite ambiguo
traduzione di Bruno Cavallone
(da “Trilogia”, Milano Libri edizioni 1973)



L’ospite sgradito
traduzione di Giuliano Dego
(da “L’ospite sgradito”, Rizzoli 1994)


L’ospite equivoco
traduzione di Matteo Codignola
da “L’ospite equivoco”, Adelphi 2004)




dedicato dall'autore a Alison Bishop




When they answered the bell on that wild winter night,
There was no one expected – and no one in sight.


Qualcuno nella notte bussò insistentemente,
ma nessuno era atteso, non si vedeva niente.



Una notte da lupi, echeggiò il campanello –
ma nessuno era atteso, o arrivava, al castello.


La notte era di freddo assai aspro e importuno:
ma allo scampanellio non videro nessuno.




Then they saw something standing on top of an urn,
Whose peculiar appearance gave them quite a turn.


Poi guardarono meglio, e al di sopra di un’urna
intravidero un’orrida presenza notturna.



Ma poi ecco, qualcosa… alcunché d’incosulto
bilanciato su un’urna – e fu il cuore in tumulto.


Poi scorsero uno strano figuro in piè su un vaso,
al che rimaser lì, con un palmo di naso.




All at once it leapt down and ran into the hall,
Where it chose to remain with its nose to the wall.


Introdottasi in casa con passo sicuro
andò ad appoggiarsi col naso contro il muro.



Balzò in terra, quel coso, corse in casa, e lì, duro,
se ne stette col naso inchiodato nel muro.


Lui tosto saltò giù e corse in stireria,
appiccicando il muso alla tappezzeria.




It was seemingly deaf to whatever they said,
So at last they stopped screaming, and went off to bed.


Era sordo a ogni invito, e a qualunque rimbrotto;
perciò andarono a letto, lasciandolo di sotto.



Era impervio a ogni rabbia, o minaccia, o concetto –
per cui (dopo gli strilli) se ne andarono a letto.


Siccome non sentiva quanto veniva detto,
smisero di strillare, e se ne andarono a letto.




It joined them at breakfast and presently ate
All the syrup and toast, and a part of a plate.


Si unì a loro nel breakfast, e mangiò di soppiatto
marmellata e pantosto, e gran parte di un piatto.



Lo rividero al breakfast. Come primo suo atto
mangiò il toast, la melassa, ed un pezzo di piatto.



Li raggiunse a colazione e si mise a divorare
parte delle stoviglie, insieme al desinare.




It wrenched off the horn from the new gramophone,
And could not be persuaded to leave it alone.


Del grammofono nuovo divelse la tromba,
deciso a tenerla con sé fino alla tomba.



Staccò netta la tromba del grammofono nuovo
ed invano una Lady gli gridò: «Disapprovo!».


Ed eccolo che toglie il grammofono dal posto:
inutile pregarlo, o ricordargliene il costo.






It betrayed a great liking for peering up flues,
And for peeling the soles of its white canvas shoes.


Lanciava nei camini occhiate furtive
spelandosi le suole delle scarpe sportive



Dimostrò inclinazione a scrutar nelle gole
e asbucciar delle scarpe, pezza a pezza, le suole.


Su per il camino appena può si spertica
a costo di sbucciarsi le scarpe da ginnastica.





At times it would tear out whole chapters from books,
Or put roomfuls of pictures askew on their hooks.


Spesso interi capitoli dai romanzi strappava,
e i quadri sui muri a sghimbescio attaccava



Alle volte strappava i capitoli a un tomo,
ed i quadri inclinava ai lor ganci di cromo.



Da quasi tutti i libri divelle interi stralci,
poi inclina i quadri in bilico sui ganci.






Every Sunday it brooded and lay on the floor,
Inconveniently close to the drawing-room door.


La domenica, assorto, crollava di botto,
ostruendo il passaggio tra sala e salotto.



La domenica, triste, meditava di botto –
steso proprio davanti alla porta in salotto.



La domenica fa il muso, e si corica bel bello:
purtroppo ostruendo la porta del tinello.





Now and then it would vanish for hours from the scene,
But alas, be discovered inside a tureen.


Ogni tanto spariva dal mattino alla sera,
ma, ahimé lo ritrovavano dentro qualche zuppiera.



Dalla scena, per ore, certi giorni spariva.
Quasi fosse la zuppa, poi qualcun lo scopriva.



A volte esce di scena per quasi un’ora intera,
per farsi poi beccare a ronfar nella zuppiera.





It was subject to fits of bewildering wrath,
During which it would hide all the towels from the bath.


A volte lo prendevano furori disumani,
e allora sottraeva salviette e asciugamani.



Andava anche soggetto a un furore taccagno.
Nascondeva, in quel caso, le salviette del bagno.



Quando si imbestialisce commette gesti insani
che, ruba dal bagno tutti gli asciugamani.





In the night through the house it would aimlessly creep,
In spite of the fact of its being asleep.


Di notte si aggirava silenzioso e orrendo,
incurante del fatto che stava dormendo.



Nottetempo il castello visitava a casaccio –
proprio mentre dormiva senza remore o impaccio.



Di notte vagabonda e non può esser fermato,
sebbene si direbbe del tutto addormentato.





It would carry off objects of which it grew fond,
And protect them by dropping them into the pond.


Talvolta trafugava qualche prezioso oggetto,
per metterlo al sicuro sul fondo del laghetto.



Per difender gli oggetti di cui più si invaghiva
li buttava nel lago – e lì tutto svaniva.


Gli oggetti di cui è pazzo gli accendono un vizietto:
per metterli al sicuro, li butta nel laghetto.




It came seventeen years ago – and to this day
It has shown no intention of going away.


Son diciassette anni che ci fa compagnia,
e non sembra abbia fretta di andarsene via.



Per ben diciassett’anni ci dimostrò abulia,
di poi che da noi giunse, d’andandosene anche via.



Da diciassette anni tien loro compagnia,
e nulla fa pensare che se ne andrà mai via.




gorey e io...




Parlare di Edward Gorey non mi è facile. Non mi è mai facile parlare degli autori che amo.

E poi Goery non è facile inquadrarlo di suo perché quello che fa Gorey assomiglia a varie cose diverse ma poi non è nessuna di quelle cose lì. Per esempio ha spesso usato la forma del picture book, tipica di certa letteratura per l'infanzia anglosassone, ma non è un autore per l'infanzia anche se poi c'è chi dice che "è perfetto per i bambini" (e lo dice Maurice Sendak, mica il primo bischero che passa) poi c'è anche chi dice che i libri di Gorey i bambini non dovrebbero neanche prenderli in mano, ecco tra questi non escluderei che ci fosse anche il primo bischero che passa, però c'è chi lo dice. I libri di Gorey assomigliano all'horror, al melodramma ma alla fin fine, di preciso, assomigliano solo ai libri di Gorey.

Qui da noi non è molto conosciuto, ma altrove gode di vasta fama e la sua influenza su certi autori contemporanei è lampante. Per citare solo il più famoso, penso che molto dell'immaginario di Tim Burton semplicemente non sarebbe concepibile senza Edward Gorey alle sue spalle (se avete presente il libro di Burton "Morte malinconica del bambino ostrica e altre storie" e già conoscete Gorey forse sapete già anche cosa voglio dire). Più ancora di Chas Addams Gorey ci ha regalato una forma tutta personale di immaginario gotico americano.

Poi si potrebbe parlare di quanto Goery assomigliasse a un personaggio di Gorey (o viceversa, ma la preferisco detta così) alto, secco, con la barba bianca, una pelliccia da uomo e le immancabili scarpe da ginnastca ai piedi. Con una casa delle meraviglie piena di innumerevoli oggetti trovati nei mercatini dell'usato o chissà dove, gatti, libri, dischi e peluche più o meno sinistri.

Credo che il primo a pubblicare Gorey in Italia sia stato Oreste del Buono [update: e credo male, che come ipotizza Sparidinchiostro nei commenti deve invece essere stato Giovanni Gandini], sulle pagine di Linus e in un bel libro Milano Libri Edizioni uscito nel 1973 dal titolo "Tirologia", il titolo allude alle tre storie che raccoglie: "The Other Statue", "The Guilded Bat" e "The Doubtful Gest". Lo scopersi solo una decina d'anni dopo la sua uscita. Me lo portò in dote la mia consorte, faceva parte dei libri della sua infanzia (che, evidentemente, i suoi la pensavano più come Sendak che non come quel bischero di passaggio).
Tra me e il bizzarro ospite della terza storia fu amore a prima vista (e quindi, di rimando, anche verso il suo autore). Battendo le librerie di Londra, negli anni '80 e '90, quello della "G" di Gorey era uno degli scaffali che non mancavo mai di visitare. Particolarmente ghiotte, per un ragazzo squattrinato quale io ero, erano le voluminose antologie in brossura che, periodicamente, raccoglievano i lavori del nostro. Il formato delle riproduzioni lì è ben più piccolo di quello delle deliziose edizioni singole, ma "Amphigorery" allora come oggi costa circa il doppio di uno dei volumetti con copertina rigida ma oltre a "The Doubtful Gest" ne conteniene altre quattordici, di storie.

Da noi invece niente. Per rivedere il nome di Gorey in una nostra libreria mi tocca aspettare il novembre del 1994 (e, credo, non per colpa della mia svagatezza) quando la Rizzoli pubblica il volume "L'Ospite sgradito e altri 12 racconti d'umorismo nero" un'idea encomiabile portata a compimento in modo dissenato: la stampa è infatti di una qualità canagliesca e, dato il fine tratteggio e il gioco sui buî dell'autore, stampare male Gorey e non stamparlo è meglio non stamparlo.
Poi più nulla per quasi dieci anni. Nel 2003 trovo - uscito per Adelphi - "Gattegoria" (opera per me un po' trascurabile, ma magari è solo colpa del fatto che a me il pelo dei gatti fa bruciare gli occhi) ma l'anno dopo esce "L'Ospite Equivoco" facendomi contento. Da allora l'Adelphi ha fatto uscire un paio di altri titoli e ormai non è più neanche l'unica ad averlo in catalogo.

Tirando le somme: di "The Doubtful Guest" esistono in italiano tre diverse edizioni e traduzioni. Le prime due sono ormai fuori catalogo e se per quella Rizzoli non c'è da versar lacrime quella di Milano Libri può valer la pena di cercarla nelle librerie dell'usato o su eBay: la carta è ottima, la stampa pure e la cura redazionale anche, tutti i testi poi sono impeccabilmente scritti a mano (da tal Franca Ferrazza) riproducendo il lettering originale dell'autore. Anche l'introduzione al volume è scritta così. Ma visto che, difficilmente, molti dei miei cinque lettori si metteranno davvero a cercare l'edizione Milano Libri (e poi, comunque, mica è detto che la trovino) e, in ogni caso, visto che la rete per me è soprattutto condivisione del sapere ho deciso di fare una cosa...




Domani posterò qui una sorta di edizione monstre di "The Doubtful Gest", ossia tutti i disegni (ma piccini eh, che questo è un blog mica un libro), il testo originale inglese (in tutto sono ventotto versi, non aspettatevi "Infinite Jest") e le tre traduzioni in italiano.

Voi però non prendetelo come un invito a non comperarvi il libro, che anzi è proprio il contrario. La mia fantasia è che guardandolo e leggendolo a video vi venga voglia di avercelo anche per le mani, che è una cosa bella e mica è difficile da fare. L'edizione Adelphi ha un formato un po' piccino ma è un oggetto delizioso che costa nove euro, la potete ordinare dal vostro libraio di fiducia che magari vi fa pure lo sconto, oppure potete comperarla con l'internet (tipo qui, qui, qui oppure qui dove al momento viene via per sette euro e venti). L'edizione originale poi c'è da Book Depository per soli cinque euro e settantuno (e questa è una libreria on-line inglese che non fa pagare le spese di spedizione quindi, non essendoci dogana, pagate proprio solo cinque ero e settantuno e ve lo portano pure a casa, che anche Play.com è inglese e non fa pagare le spese di spedizione, ma lì costa sei euro e quarantanove) se poi volete prendervi tutta "Amphigorey" vien via per undici euro e sessantasei. Dopo il continua a leggere i miei saluti, un piccolo omaggio e un paio di link.

Parlare di Edward Gorey non mi è facile e io per oggi ho scritto fin troppo. Chiudo copiandovi l'introduzione di Oreste del Buono al volume Milano Libri del 1973 (è questo l'omaggio), che io ci ho voluto bene davvero a Oreste del Buono e poi anche dalle sue parole si capisce che parlare di Edward Gorey non sempre è facile.

A domani,
a.



Confessione

Edward Gorey, l’autore di questa Trilogia, è addirittura più misterioso dei suoi disegni. Il che, ammettetelo, è sicuramente troppo. I risvolti dei suoi numerosi libri e libretti al massimo consegnano informazioni del tipo: Edward Gorey è nato a Chicago, Illunois  Edward Gorey vive a New York City. E, badate, non tutt’e due insieme. No, una per volta, una per risvolto. È evidente che gli autori dei risvolti debbono venir colti da specie di capogiri, smanie, attacchi epilettici. Li capisco benissimo io, alle prese con lo stesso guaio. In particolare capisco quello tra loro che è decisamente impazzito e ha scritto, non solo per riempire un poco di spazio, ma anche per sfogarsi, a proposito dell’opera di Edward Gorey: remarkable funny appalling mad clever macabre pointless clean morbid antic singular innocent grisly sombre reckless etcetera… Lo capisco benissimo, come se non lo capisco.
Richiesto di un supplemento di notizie su di sé Edward Gorey non risponde; ririchiesto, non risponde, e le non risposte prolungate finiscono per suggerire prima o poi un sospetto di inesistenza. Esisterà davvero Edward Gorey, nato a Chicago, Illunois  Edward Gorey vivente a New York City? A questo punto, però, ci arrivo anch’io, voi ci sarete già arrivati da un pezzo, alla conclusione voluta da Edward Gorey, che probabilmente si è scritto tutti i risvolti ai suoi numerosi libri e libretti, spingendosi persino a simulare la pazzia del risvoltista in imbarazzo per mancanza di dati. La conclusione è che non importa affatto che Edward Gorey ci sia, qualsiasi origine e qualsiasi residenza abbia. Importa solo, questo sì che importa, importa moltissimo, che continuino a esserci, che ci siano sempre di più, i suoi straordinari disegni. Straordinari sul serio. Su questo sono convinto che non sussistano dubbi tra di noi. Io, guardate, trovo senz’altro l’opera di Edward Gorey:
remarkable funny appalling mad clever macabre pointless clean morbid antic singular innocent grisly sombre reckless etcetera…
Non trascurate l’etctera, vi prego.
Odibì


PS: in realtà parlare di Gorey, e bene, non è impossibile. Matteo Codignola (il traduttore dell'edizione Adelphi di "The Doubtful Gest") nel 2003 ha scritto un articolo lungo e documentato sull'argomento (lo si trova QUI, occhio che è un pdf) probabilmente in trent'anni qualche notizia in più sull'autore deve essere trapelata, con buona pace di Odibì. Per chi mastica l'inglese poi, QUI c'è un bel ricordo di Gorey da parte di una sua carissima amica, quella Alison Lurie a cui (col nome da sposata però) è dedicato "The Doubtful Gest" (il pezzo della Lurie tiene la colonna destra della pagina). Voi poi fate come volete, io però se già non conoscete l'opera di Gorey vi consiglio di non leggervele queste due cose. Anche se sono molto interessanti (specie se lette nell'ordine in cui le ho segnalate, prima Codignola poi Lurie). Che Gorey è meglio conoscerlo prima per le storie che racconta e solo poi, eventualmente, per il soggetto che era. Questo secondo me (ma forse anche secondo lui, visti quei risvolti così laconici).

domenica 15 novembre 2009

prossimamente qui...


sabato 14 novembre 2009

presi ieri



Il libro di Darwin Cooke non lo abbiamo preso a lucca perché ci siamo mossi tardi e quando il nostro uomo è andato al banco BD per fare l'acquisto cumulativo col mega (mega) sconto ha scoperto che: 1. l'amico che ci faceva il mega-sconto se n'era tornato a milano e quindi lo sconto a quel punto era solo ottimo e in ogni caso 2. il libro di Cooke era comunque esaurito.
L'ho preso ieri e l'ho letto subito, che ero impazzziente. Un po' mi ha deluso. È che le aspettative erano elevate, che a me Cooke mi piace come disegnatore e come sceneggiatore e una sua precedente scappata nel noir (Catwoman – Selina's Big Score) mi era piaciuta assai. Questo non è un brutto fumetto, per carità, però io - pur non avendo letto l'originale - ho sentito un po' il peso della "riduzione", è come se la storia di un romanzo di 180 pagine fosse stata un po' pressata per farcela stare in un fumetto di 140 (ehi, ma è proprio quello che è successo!). E poi, non so, ma mi parso (sto per dire una cagata, lo sento) che è come se fosse che Cooke dopo aver fatto The Spirit avesse un po' perso la propria voce (ecco l'ho detta).

Quello in mezzo è non è un fumetto, è un pop up di Maurice Sendak, anche se li adoravo da piccino io non sono uso comperarmi pop up. Ora mi divertono al momento ma mi stanco presto. Però questo è spettacolare (e l'ho pagato soprendentemente poco) l'ho preso pensando di regalarlo poi ho deciso di tenermelo e oggi sono ripassato in duomo e l'ho ricomperato per regalarlo.

Jimmy Corrigan è finalmente uscito anche in italia. Io 'sto libro di Chris Ware me l'ero pure preso anni fa in inglese, ma poi non ce l'avevo fatta a cominciarlo. Lo so che è ottimo, me lo dicono tutti che è ottimo, ma non ce l'ho fatta. Ora me lo sono preso in italiano, non solo per premiare il coraggio di chi lo ha (in fine) pubblicato (dopo un'interminabile epopea di annunci e rinvii) ma anche perché così, magari, in italiano me lo leggo davvero (e poi potrò anch'io dire che è ottimo). Che poi l'inglese mi sa che era l'ultimo dei miei problemi nell'affrontare quel tomo, comunque ora quella scusa lì non c'è più. L'edizione Mondadori (curata però da Coconino) mi pare buona, le scrittine di copertina sono forse un filo meno leggibili di quella inglese, il resto però mi sembra a posto.

sabato 7 novembre 2009

francesca, andrea e tutti quanti gli altri

Nota bene: se non vi piacciono le storie con molti personaggi lasciate perdere questo post e aspettate il prossimo che faccio sulla galera che tanto lì siamo sempre in pochissimi.

Nella mia famiglia si parla poco e si racconta anche meno. A volte mi sono chiesto se nella vita sono finito a raccontare storie per mestiere perché da dove vengo io di storie se ne raccontava pochissime.
Tra le pochissime storie che so della mia famiglia un paio riguardano i nomi. E mi sono venute in mente leggendo e commentando questo post di Viadellaviola (in cui, facendo pure la figura di quello mica tanto sveglio, ho scoperto una cosa che i suoi lettori affezionati sapevano già, ma io che la seguo da meno non la sapevo e così ho scoperto che quando Viola dice "mi chiamo Viola" non dice la verità, o almeno non è verità anagrafica, che lei ha un altro nome che neanche le piace, comunque, per me Viola è e Viola resta, anche perché, per me, per come son cresciuto io, mi pare normale che le persone abbiano nomi diversi, "sensibili al contesto" come certi menu dei programmi dei computer, il presente post spiega un po' perché per me è così).

Io mi chiamo Andrea. Il mio nome è stato scelto un po' in fretta, perché i miei volevano la femmina, volevano a tal punto la femmina che si erano preparati solo per quella eventualità lì. Il nome per la femmina c'era già. Poi sono nato io. Cazzo, un maschio :( Allora la mamma ha proposto Guido, il babbo ha proposto Niccolò e poi si sono accordati su Andrea, che era un bel nome, poco comune senza essere strano (poco comune, ahahah). Quando è arrivata mia sorella il suo nome era già lì ad aspettarla da sei anni almeno: Francesca.

Per quel che ne sappiamo, io e mia sorella siamo la prima generazione della mia famiglia in cui ci chiamiamo tutti sempre nello stesso modo. Cioè, lei si chiama sempre Francesca, io mi chiamo sempre Andrea (a parte una volta che mi sono chiamato Ignazio, ma solo per finta e per pochi mesi).

nostro babbo
Mia nonna Wanda aveva un solo fratello, amatissimo, che purtroppo le è morto di tubercolosi quando era giovane. Lei aveva giurato che se avesse avuto un figlio si sarebbe chiamato come lui: Walter. Per prima le è nata mia zia Fiorella, per ultima è nata zia Donatella ma in mezzo è arrivato anche il maschio, mio babbo. Ovviamente sul nome di dubbi non ce n'era: Walter.
E così, finalmente, arriva il bel giorno in cui nonno Galileo, marito di Wanda, deve andare a registrare in comune la nascita di loro figlio. Solo che lì capita un guaio. Arrivato nell'ufficio preposto, mio nonno scopre che mica si può mettere nomi stranieri ai propri figli, che siamo ancora sotto il fascismo quando nasce il mio babbo e c'era una legge apposta che vietava proprio quella cosa lì. Quindi di Walter non se parla. L'italiano sarebbe Gualtiero, ma magari mio nonno neanche lo sa, e poi Gualtiero, dai, non scherziamo, meglio allora un nome qualsiasi, tipo Carlo. Ecco, allora mio nonno registra suo figlio come Carlo.

Solo che Galileo, tornato a casa da Wanda, non lo trova mica il coraggio di dirle che la promessa di una vita, chiamare il bambino come suo fratello, non gliel'ha potuta mantenere. E il tutto per colpa di quei bischeri che al posto di "cocktail" vogliono che si dica "bevanda arlecchina" e che hanno fatto cambiare il titolo di "Saint Luis Blues" in "Le Tristezze di San Luigi".
Passano gli anni, il bambino cresce e tutti lo chiamano Walter, e solo mio nonno sa la verità. Verità però che aspetta il mio babbo sotto forma dell'appello, a scuola, il primo giorno della prima elementare, quando, stupefatto, si sente chiamare dalla maestra con un nome che non è il suo.
Da allora il babbo è stato Walter in famiglia e Carlo a scuola e poi per i colleghi di lavoro ("Carlo Walter" nell'elenco del telefono, che non sai mai chi ha bisogno di telefornati).

Mia mamma (che penso sia l'unica persona in italia, e forse nel mondo, a chiamarsi Almiana, ma questa è un'altra faccenda) ha incontrato mio babbo a un corso serale, quindi lei ha conosciuto Carlo. Prima di sposarsi, naturalmente, è stata  presentata in famiglia e lì lei era l'unica a chiamarlo in quel modo. Finché la nonna Wanda una sera non l'ha presa da parte e le ha chiesto il favore di chiamarlo anche lei Walter, che altrimenti a lei faceva impressione e le sembrava che mia mamma stesse per sposare un'altra persona, che non era suo figlio. Da allora mia mamma lo chiama Walter o, più spesso, Walterino.

Sul nome del babbo non ho altro da dire. Però, posso dire il suo secondo e terzo nome, che poi sono quelli dei suoi nonni, ossia Pomplilio e Priamo, perciò il nome completo è Carlo Pompilio Priamo.

nostro nonno
Nonno Galileo, quello che ha combinato il pasticcio col nome di babbo, mica si chiamava Galileo! Lui si chiamava Antonio.
Il fatto è che lui era figlio di Pompilio e di Anna, due tipi che nella vita la pensavano proprio diversa. Il nonno Pompo (che lui aveva questo diminutivo qui) era un ferroviere, anarchico, che viaggiava l'italia col treno a vapore, la nonna Anna era invece una donna devota, e molto, che di nascosto dal marito gli cuciva le medagliette dei santi sulla canottiera di lana, perché lo proteggessero quando era via da casa. Poi Pompilio arrivvava stanco a fine giornata che si trovava chissà dove nell'Italia, andava a dormire in una qualche camerata delle ferrorive piena di colleghi fuochisti, macchinisti o quello che erano, e spogliandosi scopriva di avere le medagliette dei santi cucite alla canotta. E giù i cristi del nonno Pompo e giù le risate dei rudi colleghi ferriovieri.
Quando nacque il loro unico figlio, cioè mio nonno, toccò alla mia bisnonna Anna andare a registrarlo (che il mio bisnonno Pompilio era lontano, sulla macchina a vapore) e lei, con un colpo di mano, lo registrò come Antonio, che lei di Sant'Antonio era tanto devota (e le medagliette che cuciva al marito, di sfroso, io penso che fossero proprio della Madonna e di Sant'Antonio). Tornato a casa Pompilio scoprì quello che gli aveva combinato la pia moglie e (m'immagino io, dopo una salva di bestemmie da far tremare tutti e sette i cieli) impose che il loro figlio sarebbe sempre stato chiamato Galileo, in onore dello scienziato che si era opposto alla Chiesa e con cui, all'epoca, il Papa ancora non aveva fatto pace (che la riabilitazione dello scienziato pisano avverrà solo nel 1992, col nonno Pompo sottoterra già da parecchio e nonno Galileo che lo avrebbe raggiunto appena l'anno dopo).

nostra bisnonna
La nonna Anna (mamma di Galileo/Antonio, nonna di Walter/Carlo, bisnonna di Francesca e Andrea nonché devota di Sant'Antonio) quando arriva il suo momento muore pure lei.
Giunti al camposanto per seppellirla i parenti però scoprono che sulla lapide non c'è mica scritto "Anna" (e ti pareva) c'è scritto "Eleonora". Che la nonna Anna si chiamasse Eleonora non lo sapeva nessuno, o giù di lì, e il perché del suo doppio nome io proprio non ve lo posso dire, non è un segreto è che non lo so. E non lo sanno neppure i miei genitori. Perché, l'ho già detto, noi si parla poco e si racconta anche meno e queste che ho raccontato qui sono tutte le storie, o giù di lì, che so sulla mia famiglia.

giovedì 5 novembre 2009

di ombrelli e chiavi di casa

È una giornata piovosa di settembre, sono al portone del femminile e attendo che l'agente di custodia mi apra. Entro. La detenuta è già lì che mi aspetta, ora dobbiamo andare insieme di là, in redazione al quarto maschile. Però l'agente di custodia ci ferma, l'usuale operazione di registrare i nostri nomi in uscita, questione che ha sempre preso poche decine di secondi, questa volta pare necessitare di minuti e minuti. L'agente controlla chissà quali circolari, si rilegge la sconsegna della detenuta (cioè il pezzetto di carta che l'autorizza a uscire dal reparto senza la presenza di una guardia). Questo agente non ha mai avuto una faccia cordiale ma oggi ha proprio un'espressione come un po' da stronzo e ho l'impressione che perda tempo a bella posta.
Finalmente ci dà il permesso di uscire e ci riapre il pesante portone blindato, usciamo e subito, a commento di quello che è successo, la detenuta mi dice che in quella settimana lei è in lite con gli agenti. Dice che durante una perquisizione in cella le hanno pretestuosamente sequesrtato i colori con cui dipinge e da allora lei sta facendo casino e qualcuno di loro le fa dispetti.

Per fortuna ha smesso di piovere e nel tratto all'aperto tra il femminile e il maschile non devo tirar fuori l'ombrellino che (non senza qualche dubbio) mi sono portato dietro. Il fatto è che quello che so io delle carceri (e del sistema giudiziario più in generale) è molto più legato ai film americani che non alla nostra legislazione (a proposito, lo sapete che in Italia a un giudice non si dice "vostro onore", vero?) e quindi non sapevo se in galera un esterno come me può portare dentro un ombrello. Perché in una prigione USA secondo me un ombrello non te lo fanno mica portare. Che poi, probabilmente, cambia anche da carcere a carcere, comunque di differenze tra i penitenziari USA e il mio carcere, per fortuna, ce ne sono parecchie. Da quello che so, nelle prigioni statunitensi non si possono tenere neanche dei cd musicali, che una volta spezzati possono risultare taglienti. Nel mio carcere invece non solo ci sono i cd e i dvd, ma si possono tenere addirittura delle scatolette del tonno, che poi i coperchi (che lo so bene io quanto tagliano) una volta ripuliti, possono essere usati come rudimentali coltelli da cucina, visto che i coltelli veri sono – comprensibilmente – proibiti. Insomma alla fine per l'ombrello non mi hanno fatto storie. E poi, per fortuna, neanche piove.

La sessione di lavoro va bene. Mettiamo a punto i testi della puntata, poi stiamo un po' a chiacchiera e infine ci si saluta. Quindi riaccompagno la detenuta.

Quando siamo a pochi metri dal portone del femminile, nella finestrella del quale già intravedo l'agente che prima ha fatto un po' lo stronzo, la detenuta fa un gesto molto normale e molto strano allo stesso tempo. Mette una mano nella borsina dove tiene il quaderno, il tabacco e le cartine per prendere le chiavi di casa.

Se ne accorge e, ridendo, me lo dice. E io penso che in fondo è naturale: sta per rientrare a casa, c'è il portone chiuso e quindi cerca le chiavi. Peccato che alle detenute le chiavi della prigione non le lascino tenere. Neanche in un carcere avanzato come il nostro.
Mentre ancora ridacchia per questo "lapsus" io penso anche che quello mi sembra comunque un buon segno di come si sta vivendo lei la prigione, e glielo dico. E poi le dico un'altra cosa: "comunque tu non hai bisogno delle chiavi, visto che hai un portiere a tua disposizione" e proprio in quel mentre l'agente di prima ci apre il portone e ci fa entrare.

Se non abbiamo nulla di particolare da dirci, a volte, saluto la detenuta sulla porta. Ma questa volta entro apposta nell'atrio e la saluto con calma, così l'agente deve rimanere ad aspettare sul portone che io me ne vada, per poi richiudere, proprio come se la detenuta fosse a casa sua e lui fosse l'usciere di un residence.

Che si crede? Di essere l'unico capace di ripicche piccine?
Esco sorridendo.


senza passare dal via (8)

martedì 3 novembre 2009

fame comica

Fumetti comperati a prezzo pieno con le dediche, a prezzo pieno senza le dediche, comperati con lo sconto,  fumetti regalati, scambiati. Insomma di tutto un po'.




(poi di questa lucca se ne riparlerà con comodo, che sono tornato ieri sera è mo' ho mille cose da fare)